Un reliquiario è la pelle tua di alabastro e cinabro, e crepature azzurre alludono a strade sotterranee di piume invisibili. Il tuo sistema neuronale si apre come un bouquet di broccoli, come una festa nella piazza. Io, invece, ho gli emisferi di ciniglia, scheggiati e stanchi, simili alla corteccia di un albero biliare.
Ho sempre invidiato la tua capacità di piangere davvero, di piangere per poco. Ho invidiato e tuttora ammiro la facoltà tua di provare dolori sopportabili, non letali, non cancerosi, non mortiferi. Io, che ho dimenticato come si piange, ho sempre gli occhi sconvolti, perché il dolore lo trascino a lungo, lo interpello e sfrutto: è la mia miniera a cielo aperto. Mi dimora dentro, sono il suo asilo.
Un tempo ero intriso di luccicante chiaroveggenza, somigliavo al vassoio su cui troneggiò il capo di Giovanni Battista. Ero il Battista, quand’ancora speravo nella parusia, quand’ancora attendevo il messia e con la laringe incendiavo i pagani.
Non avevo altro dio all’infuori di me – per sorte, e proprio per questo, ero ateo.
Torino, 26/02/2017