a Giuseppe Zigaina
I
Pur non sapendo contare, so che sarò l’ultimo.
Il sole tiene unite le mie carni
come un copricapo di ostie
applicato al midollo,
ma la pelle evapora già
nel ritorno da un accademico meretricio.
Il Nulla ostile marca a fuoco la vita.
E io attraverso l’immenso porcile
che è la piazza vietata ai ditirambi.
Mancando il legame tra icona e reazione,
partorisco una semiologia iconoclasta.
Dove già fui senz’anima
tornerò per morire e vivere,
poiché sempre intravidi lo Scopo
celarsi dietro fabbriche di stracci,
e gridare come Logos gridò chiedendo perché.
II
L’irrecuperabile irregolarità dei verbi più usati,
come andare, bere, essere, vedere e crocifiggere,
e la caduta in disuso dei pronomi più ambigui,
come egli e esso,
trasformarono questa civiltà in una
esperienza inutile al divino,
sicché il divino dovrà resettarsi.
Pare che il mancato censimento
dei copiosi esempi
comporti il cedimento d’ogni inconscio
e la decomposizione della collettività.
Ma un ragazzo che ne sa se il suolo che calpesta
diverrà nel futuro uno scagnozzo del destino?
Dopo, quando si ha un ruolo,
si commissionano ricerche
e si scopre che la vita è mitologia:
un magnifico mantra d’aurea complessità.
A me lo Zingaro aprì gli occhi
coi polpastrelli giganti della sua unica mano:
mi diede un vero motivo per squarciare la vita
e la certezza che bisogna morire.
Io: diviso, aperto, concavo, con gli organi esposti
– per lo più i digerenti – e il volto immondo.
Loro: vedranno solo un mediatico resoconto,
la perizia dell’arcata dentale,
lo strazio verecondo della madre e del padre,
la striata cupezza della sorella, pittrice con molto talento.
Soprattutto, nella facciale deformazione della moglie
spieranno l’oltraggio e avranno conferma.
III
Il metro per valutare l’eroe
è il grado di clamoroso silenzio che sa mantenere
anche quando s’avventura fuori,
e fuori dal corpo gli portano i reni
e nella vescica gli versano aceto
e dentro all’uretra gli mettono ferri.
Ma io, che al Dubbio ho eretto un simulacro,
sto indagando il rapporto, certo
pornografico, tra Nulla e Sacro.
Il Sacro, in fondo, cosa muta?
Quand’anche il Sacro fosse vero,
al Nulla lo scalfisce?
Quand’anche dio ogni culto approvi
e sia vera ogni dottrina,
e santi i santi per davvero, e in paradiso
tutti quanti credano nel Sacro,
al Nulla in fondo lo scalfisce?
Dove sorgono gli aborti
non esistono parti politici né eleggono
assessori, non si curano delle scuole
e della ferrovia.
Del nostro osceno mondo,
che è pornografia,
neppure si domandano
i filosofemi da scartare.
E io, che al Dubbio ho eretto un simulacro,
rido di ogni Lodate dio che sistemate
tra gli occhi varicosi dei preti.
I martiri – quelli veri – acconsentirono a gocciolare
nelle fessure dei cimiteri in baraccopoli di vetri
– poiché là sono le fessure del cosmo.
IV
La taurina capitale dell’insolvenza
celebra da sempre sabba sotterranei.
Stanco dei conseguenti mal di testa,
proposi, con fare accademico,
la nascita di una catottrica dell’invisibile.
Ma, poiché ancora non avevo la laurea,
finsero che fossi muto.
Così decretai, nemmanco fossi Isaia,
l’attuazione di quella drammatica taumaturgia
che la mia anima, da sempre cosciente di ogni futuro,
proprio all’inizio voleva evitarmi,
la gravidanza di mia madre contorcendo.
I cardi demonici e i decumani mi compongono.
Pure, sempre ne rifuggo,
preferendo la verde provincia alla nera città.
Nella piazza vietata ai ditirambi
ebbi la folgorazione sulla necessità
di tradire i miei archetipi.
Durò qualche anno la convinzione.
Ora tutto è mutato.
Bandisco la Gloria da ogni
faccia della Terra.
Il messaggio sfavillante è disteso dappertutto
sotto lirici drappeggi
che sto intessendo in solitudine.
Tuttavia, esistono delle soggettive
oggettivazioni – che emanano dall’abitudine –
attraverso le quali l’idea della cosa pubblica
diviene gradita, e sono:
tutto il mondo conosciuto e anche quello ignorato,
come se il senso della mia venuta quaggiù
sia la possibilità di spargere il seme
su un imprecisato numero di visi.
Ecco perché occorre tacerne:
è come camminare su budelli di maiale:
da una parte il Nulla, dall’altra pure.
E tu, solo, aggrappato allo scempio
della materia brutale ridotta a sanguinaccio,
per redimere l’oltraggio
– e devi crederci disperatamente –
della vita.
Torino, 9 giugno 2006

Fotografia del 29 settembre 2007